Sono sempre di più le situazioni che ci portano a condividere sul web la nostra e-mail. Molto spesso, tale condivisione rappresenta un pericolo. Ecco a cosa stare attenti.
L’e-mail è uno degli strumenti più importanti di identificazione digitale. Questa ci segue ovunque e sono sempre più i siti e le applicazioni che la richiedono. Ma la sua condivisione non deve apparire come un gesto scontato.
Siamo sempre più volti a condividere il nostro indirizzo di posta elettronica con una certa facilità. Ma se per molti si tratta di questo, la realtà non è affatto così. La condizione della nostra e-mail va al di là di un semplice indirizzo. Questo è stato sostenuto da un’indagine svolta dal New York Times.
La richiesta dell’e-mail è importante non solo per conoscere l’utente ma è fondamentale per le aziende per la loro attività, come? Tramite l’offerta di annunci pubblicitari e consigli che si legano a cosa stiamo ricercando. Un indirizzo che, quindi, circola per il web è può essere fare anche di situazioni illegali. Ma il discorso fatto dal quotidiano americano è molto più profondo di quanto si creda.
E-mail, la sua condivisione rappresenta un pericolo: ecco perché
L’analisi del New York Times porta alla luce il fatto che per anni, l’industria della pubblicità online abbia utilizzato tracciatori invisibili installati dentro i siti e le app. Questi componenti erano a loro utili per rintracciare le nostre attività. Ma in tempi recenti, sono state create delle contromisure: ad esempio, Apple ha dato vita ad opzioni per impedire il tracciamento. Così come Google ha impedito di utilizzare i cookie tramite il suo Chrome entro il 2024.
Ad evolvere, però, non sono state solo le barriere difensive ma anche le tecnologie pubblicitarie. In merito, una che sta guadagnando terreno è un framework pubblicitario dal nome Unifield ID 2.0 e UID 2.0. Da come svelato dal quotidiano, questo framework trasforma l’indirizzo mail in un token formato da una stringa con numeri e caratteri. Dando modo alla pubblicità di collegarsi così da inviare annunci privati in merito ai prodotti che sono stati osservati.
Rispetto alla tecnica dei cookie, questo framework può essere considerato un passo in avanti dato che all’inserzionista non si rivela l’e-mail. Il discorso, però, non cambia di molto dato che sempre più app e portali richiedono la nostra mail e questo avviene, come spiegato da Ian Colley chief marketing officer di Trade Desk, perché per gli editori questo è un modo di monetizzare che si basa più sulla privacy che sui cookie.
Sembra, dunque, una strada a senso unico ma il Times svela che potremmo difenderci tramite un indirizzo univoco. Questo darebbe tante difficoltà nella compilazione del profilo basato sulla mail alle varie aziende che si occupano di pubblicità. Altra strada può essere l’utilizzo di strumenti di mascheramento della mail. In ultima battuta, non possiamo fare altro che vedere annunci che si legano alle nostre ricerche sapendo che la nostra e-mail circola in varie parti del web. Insomma, nonostante alcune evoluzioni al momento sembra si possa davvero far poco se non contenere questo fenomeno.