Lavorava in smart working ma molto meno di quanto avrebbe dovuto: il caso della dipendente australiana.
Consentire il lavoro in smart working ha permesso a milioni di aziende di rimanere a galla durante la Pandemia e anche a milioni di lavoratori in tutto il mondo di continuare a percepire il proprio stipendio nonostante il fatto che non potessero recarsi in ufficio.
Come sanno moltissime persone che lavorano nell’amministrazione, lo smart working è stato prolungato ben oltre lo stato di emergenza perché sono emersi degli evidenti vantaggi a seguito della sua introduzione: la possibilità di ridurre il costo e il tempo degli spostamenti casa – lavoro, poter trascorrere più tempo con la propria famiglia e dedicare più tempo ai propri hobby sono soltanto alcune delle grandi comodità di questo tipo di lavoro.
Come capita sempre, però, c’è anche il risvolto della medaglia: molti titolari d’azienda si sono battuti per riportare tutti i propri dipendenti nella sede fisica, cioè negli uffici in cui avevano sempre lavorato, perché temevano l’idea che la produzione potesse calare.
Nella maggior parte dei casi – cioè quando i dipendenti sono onesti e hanno un’etica lavorativa – le cose non stanno affatto così e la produttività in smart working rimane la stessa se non addirittura aumenta rispetto a quella assicurata dallo stesso dipendente in presenza. In alcune situazioni, però, stabilire come stanno davvero le cose è difficile.
La dipendente incolpata di aver approfittato dello smart working per lavorare molto meno di quanto avrebbe dovuto si chiama Suzie Cheikho e lavorava per un’azienda di assicurazioni. La donna, che ha trascorso la maggior parte del suo lavoro dipendente lavorando in presenza, ha stabilmente cominciato a lavorare in smart working solo nell’ultimo periodo.
Per farlo utilizzava un computer aziendale sul quale era stato installato un software che conteggiava il numero di battute digitate sulla sua tastiera e inviava periodicamente un report in cui si quantificava il lavoro svolto dalla dipendente.
Stando ai dati raccolti dal software la donna ha creato molto meno documenti assicurativi di quelli che creava nello stesso periodo lavorando in ufficio e sotto il controllo diretto dei suoi datori di lavoro.
Nello specifico, è emerso che in 49 giorni di lavoro da casa svolti tra Ottobre e Dicembre 2022, la donna aveva cominciato a lavorare in ritardo rispetto all’orario stabilito per ben 47 giorni su 49 e per quattro giorni non ha lavorato, svolgendo “0 ore di lavoro”. Questi dati hanno portato a un licenziamento della dipendente nel Febbraio 2023. C’è da dire, però, che la donna era già stata avvertita a Novembre 2022 che era necessario rimettersi in carreggiata ma, evidentemente, non si è adeguata alle indicazioni dell’azienda.
Suzie Cheikho ha anche affermato che nei giorni in cui non risultano ore di lavoro ha in realtà continuato a lavorare utilizzando un altro computer perché quello aziendale dava problemi, quindi ritiene che il suo licenziamento sia ingiusto. Le sue rimostranze non sono servite a farle mantenere il posto di lavoro.
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